V (2009)

_SAGGI

Poniamo che l’intento sia quello di rifiutare la distinzione di scienza e filosofia – o, meglio, di relativizzare, riformulare, ripensare questa distinzione. Non incombe qui la minaccia di un paradosso? Se la questione della relazione tra filosofia e scienza è sollevata proprio con l’obiettivo di mettere in discussione la possibilità di distinguere con chiarezza e senza residui i due termini della relazione, allora il fatto di prendere le mosse da una distinzione già compiuta rischia di trasformarsi in una gabbia linguistico/concettuale dalla quale potrebbe essere difficile, se non impossibile, evadere. Insomma: se in questione è il rapporto tra filosofia e scienza, non rischia l’analisi di essere vincolata da un orizzonte di pregiudizi, conoscenze, attese, ed esperienze che si attiva non appena le parole “scienza” e “filosofia” vengono pronunciate? È davvero possibile, in definitiva, pensare la relazione tra scienza e filosofia?

Questo articolo prende le mosse da uno scritto di F. S. Trincia sul tema del valore e ne propone un confronto con l’etica di H. Jonas, anch’essa sorta da tematiche connesse al progresso medico e tecnico-scientifico, cercando di mostrare come queste ultime, rendendo oggetto dell’etica le nozioni di “natura” e di “vita”, introducano un novum che rende necessario una riflessione etica del tutto nuova. Sorge infatti l’interrogativo se le nostre attuali capacità di intervento sulla vita e sulla natura attraverso le moderne tecniche mediche e scientifiche non possano modificare radicalmente le condizioni stesse a cui è possibile parlare di esseri umani, e quindi di quell’essere capaci di volontà razionale autonoma di cui Trincia ribadisce l’essenzialità per la possibilità di un discorso etico. Sulla scorta del tentativo jonasiano di fondare ontologicamente l’etica, si può provocatoriamente mostrare che il nostro attuale agire, capace di modificare così radicalmente la natura, l’ambiente e la vita in generale (fino a mettere a repentaglio l’esistenza della vita umana sulla terra), pone un’ipoteca sulla possibilità stessa di presupporre l’esistenza dell’uomo. Lo stesso “factum” della ragione, il fatto che si dia per se stessa la coscienza della legge morale fondamentale, rischia di apparire un presupposto che non è più possibile dare per scontato. I nuovi interrogativi etici, connessi alla manipolazione genetica e tecnica della vita (e del confine vita-morte), impongono una riflessione etico-filosofica che rimetta in discussione i suoi stessi fondamenti, e rispetto a questa nuova situazione il tentativo di fondazione ontologica di Jonas, pur nella sua innegabile problematicità, può aiutare a trovare originali e importanti spunti di riflessione.

Coloro che hanno a cuore la filosofia di Spinoza ricordano di certo l’importante convegno di studi che si svolse nel 2002 sul tema “Spinoza in Italia”. Gli interventi di quel convegno, raccolti in volume da Bibliopolis nel 2007, offrono l’occasione a Girolamo De Liguori non solo di una illustrazione ma anche di una serie di puntualizzazioni che viene ad aggiungersi, quasi ulteriore contributo, a quelli pubblicati. L’Autore, che ha mostrato già altre volte di avere il gusto e la capacità della ricostruzione minuta della storia delle idee, rincalza qui gli scritti di importanti studiosi di Spinoza per arricchirne il valore storiografico, senza cercare la polemica, ma aggiungendo quanto la sua esperienza di saggista gli consente di fare con velocità e precisione allo stesso tempo.

Ai fondamenti della logica aristotelica, Guido Calogero aveva dedicato la tesi di laurea in filosofia, seguita da Giovanni Gentile. Pubblicata in volume nel 1927, quella ricerca rimase, per molto tempo, al centro delle meditazioni del filosofo romano. La tesi principale del libro, relativa alla presenza di due logiche in Aristotele, quella del nous e quella della dianoia, entrò presto in un difficile rapporto speculativo con la critica che, negli stessi anni, Calogero aveva formulata dell’attualismo gentiliano e, in generale, della “filosofia del conoscere”. Ma il principio del nous, colto attraverso la giovanile indagine aristotelica, rimase operante nel suo pensiero successivo, sia nelle Lezioni di filosofia che nell’elaborazione di una “filosofia del dialogo”. Il confronto teoretico con la filosofia di Aristotele proseguì, dunque, senza interruzioni, e il principio che Calogero vi aveva enucleato, quello del nous, cercò variamente di conciliarsi con l’altro principio, quello della soggettività, che proveniva dall’attualismo.

In questa comunicazione, redatta in occasione del convegno La metafisica in Italia tra le due guerre. Dall’idealismo allo spiritualismo? organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana e dall’Università degli Studi “Ca’ Foscari” di Venezia in collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, si traccia un rapido schizzo del confronto che vide contrapposto Antonio Aliotta e il suo allievo Renato Lazzarini.
Nel grande saggio del 1936  Il male nel pensiero moderno. Le due vie della liberazione Lazzarini sosteneva che il pensiero moderno, non dissimile in questo da quello dei Greci, ha in sé un motivo irrazionalistico che lo mina alla base e che consiste nel ritenere che il male sia elemento essenziale nella struttura del rapporto tra universale e particolare. Male sarebbe, secondo Lazzarini, per quasi tutti i filosofi il limite che l’universale istituisce, o che trova, e che sempre deve risolvere per affermarsi come universale. Insomma è proprio il fatto che la metafisica si strutturi come rapporto dell’universale col particolare e pretenda questo rapporto come assoluto che appariva agli occhi di Lazzarini come una situazione concettualmente insostenibile. Il ragionamento di Lazzarini venne accusato da Aliotta come una critica che colpiva i presupposti del suo stesso filosofare e per questo in Il sacrificio come significato del mondo (1947, ma composto negli anni precedenti) tentò di parare il colpo assestatogli dall’allievo non senza, però, mostrare i limiti nei quali il suo pensiero restava confinato.

    La ‘morte’ di Sigmund Freud (1939-2009)

di Francesco Saverio Trincia

Freud muore il 23 settembre 1939 alle tre di notte nella casa di Londra in cui viveva dopo la fuga dell’anno precedente da Vienna minacciata dai nazisti. Nella vicenda della sua morte, Freud ha messo in scena la propria teoria della morte, la propria nozione psicoanalitica di  «morte»: egli ha configurato la sua vicenda vitale nella forma di una corrispondenza anche finale tra vita e pensiero, che gli ha permesso di morire riconoscendo liberamente la doppia necessità di quest’ultimo – quella che attiene alla sua serena ineluttabilità e quella che concerne la coerenza interna del pensiero della morte. Si propone qui un’analisi della «morte» di Freud nei testi ben noti risalenti al 1915, Caducità, Noi e la morte, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Lutto e melanconia, tentando di farli parlare anche alla nostra coscienza etica e alla nostra sensibilità bioetica, con l’andare al fondo e al di là della trasparente chiarezza di quel che vi si dice.

_INTERVISTE

    Perché ancora la filosofia? Intervista a Carlo Cellucci 

a cura di Federica Buongiorno

L’autore si misura con la questione del revisionismo storico discutendo il volume di Di Rienzo Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica. Si obietta a Di Rienzo che la debolezza di alcuni non può invalidare gli ideali dell’antifascismo, cioè di quella molteplicità di forze e culture che si trovò riunita a difendere, contro il regime fascista, la libertà che incarnava per esse l’idea di nazione. Questa idea, invece, era diversamente concepita da chi, come Gioacchino Volpe, ne propugnava la valenza naturalistico-vitalistica. La vicenda del grande storico, considerata alla luce delle sue convinzioni storiografiche più profonde, è più un esempio di inattualità che non di “persecuzione”.

L’autore si misura con la questione del revisionismo storico discutendo il volume di Di Rienzo Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica. Si obietta a Di Rienzo che la debolezza di alcuni non può invalidare gli ideali dell’antifascismo, cioè di quella molteplicità di forze e culture che si trovò riunita a difendere, contro il regime fascista, la libertà che incarnava per esse l’idea di nazione. Questa idea, invece, era diversamente concepita da chi, come Gioacchino Volpe, ne propugnava la valenza naturalistico-vitalistica. La vicenda del grande storico, considerata alla luce delle sue convinzioni storiografiche più profonde, è più un esempio di inattualità che non di “persecuzione”.

_RECENSIONI